lunedì 14 giugno 2010

Sorpresa

Sarà il caldo, sarà la voglia di vacanze, sarà che non posso sempre leggere romanzi impegnati o di nicchia... mi sono fatta prestare (badate bene: non l'ho comprato) "L'eleganza del riccio" di Muriel Barbery. Beh! Beh! Mica male la storia di una portinaia in un palazzo abitato dalla ricca borghesia parigina. Innanzitutto non è una lettura da ombrellone, con tutti quei termini mutuati dalla filosofia e tutti quei tentativi di dare un senso alla vita noiosa e senza slanci dei ricchi che abitano in 400 metri quadri, anzi, forse il tentativo di dare un senso alla vita tout court. Non mi sentirei di consigliarlo né alla casalinga di Voghera né a chi odia le dissimulazioni al contrario, cioè i tentativi di fingersi ignoranti e stupidi per non dover giustificare la propria diversità continuamente, in un mondo popolato per lo più di gente che non hai mai letto "Il Manifesto del Partito Comunista" di Marx ed Engels o "Anna Karenina" di Lev Tolstoj. Capirete bene che quando tutti fingono di essere di più di quello che sono, una concierge auto-didatta e una dodicenne super-intelligente che vivono in incognito sono delle figure rivoluzionarie. Peccato che entrambe non si nascondano per convinzione propria ma a causa di eventi esterni, un po' come i single che dichiarano di esserlo "per scelta" quando invece nessuno se li è presi. Peccato inoltre che la portinaia, che si dichiara superiore ai suoi datori di lavori a ogni piè sospinto, incappi anche lei in pregiudizi, facendo apparire tutti i ricchi viziati, con la puzza sotto il naso e inutili, al pari del suo grasso gatto perennemente afflosciato sul divano.
A parte questo il romanzo è piacevole. Forse un po' compiaciuto, come c'era da aspettarsi da una professoressa di filosofia, ma per niente banale. Mi tocca dargli 4 stelle.

giovedì 3 giugno 2010

Incomprensione

Ho fatto l’errore di leggere la prefazione di Oreste Del Buono all’opera di Andé Gide, premio Nobel nel 1947, prima di cominciare “La scuola delle mogli” nell’edizione Utet. Nella prefazione si pone l’accento sulla soffocante educazione cristiana ricevuta da Gide, rimasto orfano di padre a undici anni, da parte della pia madre e di un circolo di sante donne, che portò lo scrittore a fuggire in Africa e a intraprendere sia una carriera artistica polemica e trasgressiva sia un cammino sessuale ben lontano da scrupoli religiosi e morali. Si pone l’accento sulla modernità dell’autore, sui temi scomodi trattati nelle sue opere, sul suo impegno sociale e politico spesso fonte di attriti, sulla sua ambiguità letteraria e umana (rimaneva pur sempre imbevuto di puritanesimo, tanto da convincersi a prendere in sposa una cugina).
Mi aspettavo un romanzo coraggioso, dunque, e fuori dagli schemi. Gide era amico di Oscar Wilde, per intenderci. Invece mi sono ritrovata tra le mani un trattato sulle presunte virtù che una donna, attorno al 1929, dovrebbe possedere per essere una buona moglie: sottomissione, umiltà, spirito di sacrificio e, perché no, ignoranza. A parte il contenuto, che qualcuno potrebbe interpretare come una provocazione (con tanta fantasia), lo stile è pomposo, artefatto; il tono moralistico; le frasi stucchevoli. Provo a mettermi nei panni di un lettore dell’epoca e, a parte il tema dell’omosessualità femminile, trattato con le pinze, non vi trovo nulla di scandalosamente moderno. Se vogliamo fare un paragone, nel 1928 D. H. Lawrence scrisse “L’amante di Lady Chatterley” e non le paturnie di una moglie che va a morire al fronte perché non accetta di essersi disamorata del marito.
Ammetto, non ho capito nulla della grandezza di Gide. Forse dovrei insistere e leggermi qualcos’altro ma sentenze come “Secondo l’abate, l’importante non è tanto il dire quel che si pensa (ché spesso si pensa molto male) quanto quello che si dovrebbe pensare; giacché molto naturalmente e quasi senza volere, si finisce per pensare quello che si dice” mi terrorizzano.