venerdì 25 maggio 2012
Fumetto
Ogni tanto è bello lasciarsi andare a letture non impegnate, anche se qualche appassionato del genere non sarebbe d'accordo sulla definizione e vorrebbe farmi lo scalpo.
Fatto sta che ho letto il primo volume (albo? tomo?) della serie de Lo scorpione, dal titolo "Il marchio del diavolo", e mi è piaciuto. Enrico Marini è il disegnatore e Stephen Desberg, nato in Belgio, è lo sceneggiatore. L'ho letto perchè ho riconosciuto lo Scorpione dopo averlo fotografato casualmente, anni fa, a Bruxelles: era uno dei tanti murales sparsi per la città.
Si tratta di un fumetto da collezione, con disegni bellissimi. Sfondo beige per la luce diurna e blu per quella notturna sulle quali spiccano rossi, verdi, e naturalmente il nero del protagonista, di notevole impatto plastico.
La storia si ambienta a Roma nel millesettecento. La Chiesa risulta comandata da una decina di potenti e ricche famiglie che tramano per soffocare i nascenti spiriti laici nazionali nei regni europei. Lo Scorpione, esperto d'arte, collezionista e predatore di tombe, si trova suo malgrado coinvolto nella morte del Papa.
Niente paura, maschietti, non è un fumetto tutto sciabola e inseguimenti; ci sono anche le dovute pause con le donnine discinte. Forse sì, non è un fumetto pensato per il gentil sesso. Ma che importa quando il protagonista è tutto muscoli e ha le mascelle che ricordano un noto attore di soap opera. Dimenticavo! Ha pure il petto scolpito che si vede tra i lacci della camicetta... Aiuto, parlo come una quasi-quarantenne in crisi mistica. Mi sa che devo comprarmi il secondo albo? per farmela passare.
mercoledì 4 aprile 2012
Ginnastica
Terribile. Eppure il Bukowski poeta mi aveva divertito tanto…
Il Bukowski romanziere, quello di “Donne”, almeno, è illeggibile. La trama si può così riassumere: un poeta cinquantenne, alcolizzato e sulla cresta dell’onda, approfitta della propria notorietà e della disponibilità di alcune giovani donne, drogate o psicopatiche, per lasciarsi andare a un’avventura sessuale dietro l’altra.
Non che io sia una moralista ma persino alla trasgressione c’è un limite, superato il quale si piomba nella noia più totale. Strano ma vero, la trasgressione fine a se stessa è banale, insulsa, da idioti. Se l’alter-ego dell’autore avesse avuto un avversario (in carne ed ossa o una cirrosi epatica o un’anomalia congenita del ventricolo) sarebbe stato tutto più interessante. Invece qui abbiamo un cinquantenne con gli ormoni sballati che si crede un ragazzino e che trasuda pateticità da tutti i pori. Peccato.
Mi sono dovuta ricredere su un autore che sa essere ironico ma che ha voluto strafare. Era meglio se fosse rimasto ai suoi versi che, essendo brevi di natura, gli avrebbero evitato alcune imbarazzanti acrobazie verbali e ginniche. La volgarità gratuita è ingiustificabile. Tuttavia non mi sentirei di stroncare “Donne” del tutto. Ci sono alcune categorie di persone a cui potrebbe piacere: a chi ha problemi di testosterone, a chi non batte chiodo da anni, ai detenuti.
Il Bukowski romanziere, quello di “Donne”, almeno, è illeggibile. La trama si può così riassumere: un poeta cinquantenne, alcolizzato e sulla cresta dell’onda, approfitta della propria notorietà e della disponibilità di alcune giovani donne, drogate o psicopatiche, per lasciarsi andare a un’avventura sessuale dietro l’altra.
Non che io sia una moralista ma persino alla trasgressione c’è un limite, superato il quale si piomba nella noia più totale. Strano ma vero, la trasgressione fine a se stessa è banale, insulsa, da idioti. Se l’alter-ego dell’autore avesse avuto un avversario (in carne ed ossa o una cirrosi epatica o un’anomalia congenita del ventricolo) sarebbe stato tutto più interessante. Invece qui abbiamo un cinquantenne con gli ormoni sballati che si crede un ragazzino e che trasuda pateticità da tutti i pori. Peccato.
Mi sono dovuta ricredere su un autore che sa essere ironico ma che ha voluto strafare. Era meglio se fosse rimasto ai suoi versi che, essendo brevi di natura, gli avrebbero evitato alcune imbarazzanti acrobazie verbali e ginniche. La volgarità gratuita è ingiustificabile. Tuttavia non mi sentirei di stroncare “Donne” del tutto. Ci sono alcune categorie di persone a cui potrebbe piacere: a chi ha problemi di testosterone, a chi non batte chiodo da anni, ai detenuti.
lunedì 4 luglio 2011
Due gioiellini
L'ultimo numero di Urania Collezione contiene due romanzi di James White, nord-irlandese: "Vita con gli automi" e "Partenza da zero".
Che differenza con l'ultimo polpettone di fantascienza letto! (vedi tre o quattro post fa).
Nel primo si narra la vita, o meglio, le pause tra un'ibernazione e l'altra, dell'unico uomo sopravvissuto su tutta la Terra a un paio di guerre nucleari. Nonostante il racconto sia conciso, appena centotrenta pagine, la descrizione della sua angoscia esistenziale e dei suoi tentativi per trovare altri superstiti è toccante, come è toccante l'evoluzione del suo rapporto con l'automa-infermiera che ha in carico la sua salute. Tra un risveglio e l'altro passano i secoli. I robot che sono sovravvissuti alla catastrofe nucleare hanno il compito di servire l'ultimo uomo rimasto e, seguendo le sue istruzioni, si moltiplicano (recuperando tutto il metallo possibile) e cominciano a bonificare l'ambiente. Piantano persino dei semi d'erba, unici vegetali ancora in vita, e, con immensi sforzi e dopo un tempo lunghissimo, riescono a ridare alla Terra un aspetto quasi adatto alla vita: cielo limpido, acque azzurre - anche se sterili - campi d'erba su cinque continenti. Purtroppo la fine del sole si avvicina... tutti questi sforzi per tornare alla vita saranno stati inutili? Bello, bello, bello!
Altre riflessioni sugli effetti devastanti delle guerre si trovano in "Partenza da zero", ambientato in un rigoglioso pianeta-prigionia dove alcune centinaia di ufficiali, uomini e donne, abbandonati a se stessi, devono decidere se dimenticare il proprio passato militare e farsi una nuova vita, una famiglia, o se devono tentare il tutto per tutto e fuggire. Anche se hanno a disposizione attrezzi rudimentali e una carenza preoccupante di materie prime adatte a forgiare armi e tute pressurizzate.
Altro romanzo breve che si fa leggere d'un fiato. Anzi, alla fine ero talmente coinvolta che non volevo leggere le ultime pagine per paura che finisse male, cioè che la fuga non riuscisse, anche se in realtà l'autore lascia intendere che l'unico happy end possibile non è quello dei militari che tornano in servizio ma quello dei disertori che abbandonano i fucili e si danno all'agricoltura. Infatti il romanzo non ha vinto nessun premio Hugo o Nebula. Va bene la fantascienza più sfrenata ma il peccato ideologico contro la guerra no!
Che differenza con l'ultimo polpettone di fantascienza letto! (vedi tre o quattro post fa).
Nel primo si narra la vita, o meglio, le pause tra un'ibernazione e l'altra, dell'unico uomo sopravvissuto su tutta la Terra a un paio di guerre nucleari. Nonostante il racconto sia conciso, appena centotrenta pagine, la descrizione della sua angoscia esistenziale e dei suoi tentativi per trovare altri superstiti è toccante, come è toccante l'evoluzione del suo rapporto con l'automa-infermiera che ha in carico la sua salute. Tra un risveglio e l'altro passano i secoli. I robot che sono sovravvissuti alla catastrofe nucleare hanno il compito di servire l'ultimo uomo rimasto e, seguendo le sue istruzioni, si moltiplicano (recuperando tutto il metallo possibile) e cominciano a bonificare l'ambiente. Piantano persino dei semi d'erba, unici vegetali ancora in vita, e, con immensi sforzi e dopo un tempo lunghissimo, riescono a ridare alla Terra un aspetto quasi adatto alla vita: cielo limpido, acque azzurre - anche se sterili - campi d'erba su cinque continenti. Purtroppo la fine del sole si avvicina... tutti questi sforzi per tornare alla vita saranno stati inutili? Bello, bello, bello!
Altre riflessioni sugli effetti devastanti delle guerre si trovano in "Partenza da zero", ambientato in un rigoglioso pianeta-prigionia dove alcune centinaia di ufficiali, uomini e donne, abbandonati a se stessi, devono decidere se dimenticare il proprio passato militare e farsi una nuova vita, una famiglia, o se devono tentare il tutto per tutto e fuggire. Anche se hanno a disposizione attrezzi rudimentali e una carenza preoccupante di materie prime adatte a forgiare armi e tute pressurizzate.
Altro romanzo breve che si fa leggere d'un fiato. Anzi, alla fine ero talmente coinvolta che non volevo leggere le ultime pagine per paura che finisse male, cioè che la fuga non riuscisse, anche se in realtà l'autore lascia intendere che l'unico happy end possibile non è quello dei militari che tornano in servizio ma quello dei disertori che abbandonano i fucili e si danno all'agricoltura. Infatti il romanzo non ha vinto nessun premio Hugo o Nebula. Va bene la fantascienza più sfrenata ma il peccato ideologico contro la guerra no!
martedì 28 giugno 2011
Solo buoni romanzi
Immaginiamo per un attimo che in una libreria non ci siano né saggi né biografie, né libri di divulgazione scientifica né volumi per ragazzi, raccolte di fotografie o manuali di sopravvivenza tra vicini di casa. Non ci sarebbero nemmeno i best sellers che vendono milioni di copie (puro intrattenimento) né i romanzi che entrano a far parte delle cinquine dei premi letterari (puro fumo negli occhi). Cosa rimarrebbe? chiedete voi. I romanzi, o meglio, i buoni romanzi.
Laurence Cossé, ne “La libreria del buon romanzo”, ha immaginato questo scenario. Due visionari, un libraio dal breve curriculum e una donna della buona società in possesso di un discreto capitale, decidono di diventare soci e di aprire a Parigi la libreria dei loro sogni. Per far ciò, chiedono aiuto a otto “grandi lettori”, i quali devono compilare una lista di seicento romanzi ciascuno che andranno a rifornire gli scaffali della libreria. Unico requisito: la qualità.
Gulp! Seicento buoni romanzi. Non è un’impresa da poco. Ho fatto un rapido conto… non mi prenderebbero mai come grande lettrice. Anche se avessi letto seicento libri, cosa che non ho fatto, purtroppo, tra questi mi sentirei di consigliarne non più del venti per cento. Che tristezza. Cosa volete farci? Mi sono immedesimata… A parte le cinquanta pagine un po’ tecniche sull’apertura della libreria, il resto della storia è coinvolgente, soprattutto nella seconda parte, nella quale i due novelli impresari vengono minacciati e gli stessi grandi lettori, sebbene siano rimasti anonimi, subiscono degli strani incidenti.
Alcuni autori, esclusi dal catalogo della libreria elitaria, se la sono presa e hanno cominciato, sui quotidiani, una campagna denigratoria. Chi sono costoro che si eleggono a paladini della qualità letteraria? Che titoli hanno per fare una cernita? La violenza che si può celare dietro un autore frustrato è davvero notevole. Siete avvisati.
Il finale è amaro. Forse, nella nostra società dominata dall’apparire, anche in campo culturale, non c’è spazio per scelte di sostanza.
“La libreria del buon romanzo” è adatta a chi adora leggere bene ma è un po’ masochista.
Laurence Cossé, ne “La libreria del buon romanzo”, ha immaginato questo scenario. Due visionari, un libraio dal breve curriculum e una donna della buona società in possesso di un discreto capitale, decidono di diventare soci e di aprire a Parigi la libreria dei loro sogni. Per far ciò, chiedono aiuto a otto “grandi lettori”, i quali devono compilare una lista di seicento romanzi ciascuno che andranno a rifornire gli scaffali della libreria. Unico requisito: la qualità.
Gulp! Seicento buoni romanzi. Non è un’impresa da poco. Ho fatto un rapido conto… non mi prenderebbero mai come grande lettrice. Anche se avessi letto seicento libri, cosa che non ho fatto, purtroppo, tra questi mi sentirei di consigliarne non più del venti per cento. Che tristezza. Cosa volete farci? Mi sono immedesimata… A parte le cinquanta pagine un po’ tecniche sull’apertura della libreria, il resto della storia è coinvolgente, soprattutto nella seconda parte, nella quale i due novelli impresari vengono minacciati e gli stessi grandi lettori, sebbene siano rimasti anonimi, subiscono degli strani incidenti.
Alcuni autori, esclusi dal catalogo della libreria elitaria, se la sono presa e hanno cominciato, sui quotidiani, una campagna denigratoria. Chi sono costoro che si eleggono a paladini della qualità letteraria? Che titoli hanno per fare una cernita? La violenza che si può celare dietro un autore frustrato è davvero notevole. Siete avvisati.
Il finale è amaro. Forse, nella nostra società dominata dall’apparire, anche in campo culturale, non c’è spazio per scelte di sostanza.
“La libreria del buon romanzo” è adatta a chi adora leggere bene ma è un po’ masochista.
giovedì 23 giugno 2011
Aria di vacanza
“Un assistente di viaggi… mi raccontava che un cliente, giorni fa, doveva andare da Milano a Roma e pretendeva di prenotare l’Enterprise. Dopo un lungo negoziato, si è scoperto che voleva dire Intercity”.
“Ci sono i «bustinomani» - nulla di illegale, sia chiaro – che amano mettere il biglietto (aereo) in una bustina trasparente, che va dentro una busta di carta, che sta dentro una busta di pelle”.
“La cintura del sedile posteriore, poi, viene considerata una cosa eccentrica, oppure ignorata. Mi è accaduto di salire nell’auto di un amico (padre di tre figli), e di allacciarmela. Quando ha sentito lo scatto, si è girato e mi ha chiesto: «Dove l’hai trovata?»”
Questi sono alcuni passaggi del “Manuale dell’imperfetto viaggiatore” di Beppe Severgnini pubblicato nel 2000.
Il saggio indaga il comportamento dell’italiano medio dall’agenzia di viaggi al ritorno a casa, passando per il tragitto (in auto, in camper, in aereo, in nave…), il soggiorno vacanziero vero e proprio, gli imprevisti (dimenticanze varie, vestiti sbagliati, fregature al momento di acquistare gli immancabili souvenir ecc.), le bravate, il rapporto con i cibi esotici, l’ostentazione del cellulare, la difficoltà di calcolare una mancia dignitosa, il comportamento con gli altri italiani incontrati in vacanza, le visite a musei, le foto ricordo. Tutto, insomma. O quasi. Mancano solo un accenno a quelli che si presentano al check-in dell’aeroporto in infradito e la constatazione che i bambini, in vacanza, si ammalano delle patologie più rare rovinando immancabilmente l’unica settimana di “riposo” dei genitori.
Per il resto è un quadretto veritiero e simpatico dei vacanzieri italiani fatto da uno che è stato parecchio all’estero e quindi ha potuto confrontare le manie dei compatrioti con quelle degli americani, soprattutto. Non è l’unico saggio scritto da Severgnini sull’argomento: essendo di stretta attualità e cambiando le abitudini in fretta (a seguito del progresso tecnologico), il comportamento varia di conseguenza e va tenuto costantemente monitorato. Se vi capita di trovarne uno per casa (“Italiani con la valigia” ma anche “Un italiano in America” o “Italiani si diventa”) portatevelo in spiaggia e leggetelo. Non sia mai che smettiate di rompere al vicino di ombrellone con i vostri racconti intimi o di vantarvi di quanto poco avete speso per comprare quella borsa finta di Hermes da regalare a vostra cognata facendola passare per originale…
Di originale, nelle vacanze degli italiani, c’è solo la commedia umana di cui si sentono gli splendidi protagonisti.
P.S. Caro Beppe, anch’io ho giocato a ping-pong a Guadalupa! Ma non sotto una tettoia, anzi, in pieno sole e alle due del pomeriggio, dopo aver mangiato salsiccia di colombo e mousse al cocco. Ero in viaggio di nozze e ho vomitato per due giorni.
“Ci sono i «bustinomani» - nulla di illegale, sia chiaro – che amano mettere il biglietto (aereo) in una bustina trasparente, che va dentro una busta di carta, che sta dentro una busta di pelle”.
“La cintura del sedile posteriore, poi, viene considerata una cosa eccentrica, oppure ignorata. Mi è accaduto di salire nell’auto di un amico (padre di tre figli), e di allacciarmela. Quando ha sentito lo scatto, si è girato e mi ha chiesto: «Dove l’hai trovata?»”
Questi sono alcuni passaggi del “Manuale dell’imperfetto viaggiatore” di Beppe Severgnini pubblicato nel 2000.
Il saggio indaga il comportamento dell’italiano medio dall’agenzia di viaggi al ritorno a casa, passando per il tragitto (in auto, in camper, in aereo, in nave…), il soggiorno vacanziero vero e proprio, gli imprevisti (dimenticanze varie, vestiti sbagliati, fregature al momento di acquistare gli immancabili souvenir ecc.), le bravate, il rapporto con i cibi esotici, l’ostentazione del cellulare, la difficoltà di calcolare una mancia dignitosa, il comportamento con gli altri italiani incontrati in vacanza, le visite a musei, le foto ricordo. Tutto, insomma. O quasi. Mancano solo un accenno a quelli che si presentano al check-in dell’aeroporto in infradito e la constatazione che i bambini, in vacanza, si ammalano delle patologie più rare rovinando immancabilmente l’unica settimana di “riposo” dei genitori.
Per il resto è un quadretto veritiero e simpatico dei vacanzieri italiani fatto da uno che è stato parecchio all’estero e quindi ha potuto confrontare le manie dei compatrioti con quelle degli americani, soprattutto. Non è l’unico saggio scritto da Severgnini sull’argomento: essendo di stretta attualità e cambiando le abitudini in fretta (a seguito del progresso tecnologico), il comportamento varia di conseguenza e va tenuto costantemente monitorato. Se vi capita di trovarne uno per casa (“Italiani con la valigia” ma anche “Un italiano in America” o “Italiani si diventa”) portatevelo in spiaggia e leggetelo. Non sia mai che smettiate di rompere al vicino di ombrellone con i vostri racconti intimi o di vantarvi di quanto poco avete speso per comprare quella borsa finta di Hermes da regalare a vostra cognata facendola passare per originale…
Di originale, nelle vacanze degli italiani, c’è solo la commedia umana di cui si sentono gli splendidi protagonisti.
P.S. Caro Beppe, anch’io ho giocato a ping-pong a Guadalupa! Ma non sotto una tettoia, anzi, in pieno sole e alle due del pomeriggio, dopo aver mangiato salsiccia di colombo e mousse al cocco. Ero in viaggio di nozze e ho vomitato per due giorni.
martedì 21 giugno 2011
Avventura incompleta
Per il centenario dalla sua morte, ho deciso di leggere un romanzo di Emilio Salgari, partendo non dal primo del ciclo indo-malese, "I misteri della giungla nera", bensì dal secondo, che avevo a casa: "Le due tigri".
Una tigre, quella di Momprecen, è Sandokan ovviamente; quella indiana è un certo Suyodhana, capo dei Thugs, adoratori della dea Kalì nonché feroci assassini, i quali hanno rapito la figlioletta di un amico di Sandokan per farne una vergine sacerdotessa della dea.
I nostri eroi, Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, padre della rapita, dopo essere scampati a un paio d'imboscate a Calcutta, s'inoltrano in una paludosa foresta per raggiungere il covo segreto dei Thugs ma, invece di raggiungerlo subito, fingono di essere dei cacciatori per sviare i sospetti di eventuali sentinelle.
La caccia alla tigre (tigri che cacciano tigri! sembra uno scioglilingua) è un pretesto per descrivere la giungla. Impenetrabile, insalubre, disabitata da umani ma generosa di piante velenose e animali in agguato. Sarebbe uno scenario romantico se Salgari non utilizzasse un tono didattico, alla "adesso ti spiego io che animale è e perché si comporta così", rovinando la narrazione. Ho capito perché è definito un autore per ragazzi.
Questa, comunque, non sarebbe la pecca maggiore se egli non si dimenticasse di terminare il libro, dicendoci se i pirati di Mompracen riescono a trovare il covo dei Thugs e a strappare loro la piccola sacerdotessa. Manca la battaglia finale! Che avventura è? Chi se ne frega se riescono ad abbattere un rinoceronte e ammazzare due tigri mangia-uomini... io voglio la battaglia tra il bene e il male! E non di dover leggere il prossimo romanzo per sapere come va a finire.
Infatti "Le due tigri" è breve, un romanzetto. L'autore sottovaluta la capacità di lettura degli adolescenti. Ai giorni nostri si sorbiscono anche mille pagine di Harry Potter. Forse ai suoi tempi erano meno abituati alla lettura? Non credo.
Insomma, sarà stato un autore celebrato nel Novecento (fino alla serie televisiva degli anni settanta con Kabir Bedi che ho visto persino io) ma attualmente è fuori mercato. La giungla non ha più il fascino di una volta.
Una tigre, quella di Momprecen, è Sandokan ovviamente; quella indiana è un certo Suyodhana, capo dei Thugs, adoratori della dea Kalì nonché feroci assassini, i quali hanno rapito la figlioletta di un amico di Sandokan per farne una vergine sacerdotessa della dea.
I nostri eroi, Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, padre della rapita, dopo essere scampati a un paio d'imboscate a Calcutta, s'inoltrano in una paludosa foresta per raggiungere il covo segreto dei Thugs ma, invece di raggiungerlo subito, fingono di essere dei cacciatori per sviare i sospetti di eventuali sentinelle.
La caccia alla tigre (tigri che cacciano tigri! sembra uno scioglilingua) è un pretesto per descrivere la giungla. Impenetrabile, insalubre, disabitata da umani ma generosa di piante velenose e animali in agguato. Sarebbe uno scenario romantico se Salgari non utilizzasse un tono didattico, alla "adesso ti spiego io che animale è e perché si comporta così", rovinando la narrazione. Ho capito perché è definito un autore per ragazzi.
Questa, comunque, non sarebbe la pecca maggiore se egli non si dimenticasse di terminare il libro, dicendoci se i pirati di Mompracen riescono a trovare il covo dei Thugs e a strappare loro la piccola sacerdotessa. Manca la battaglia finale! Che avventura è? Chi se ne frega se riescono ad abbattere un rinoceronte e ammazzare due tigri mangia-uomini... io voglio la battaglia tra il bene e il male! E non di dover leggere il prossimo romanzo per sapere come va a finire.
Infatti "Le due tigri" è breve, un romanzetto. L'autore sottovaluta la capacità di lettura degli adolescenti. Ai giorni nostri si sorbiscono anche mille pagine di Harry Potter. Forse ai suoi tempi erano meno abituati alla lettura? Non credo.
Insomma, sarà stato un autore celebrato nel Novecento (fino alla serie televisiva degli anni settanta con Kabir Bedi che ho visto persino io) ma attualmente è fuori mercato. La giungla non ha più il fascino di una volta.
martedì 7 giugno 2011
Fantapizza
Sarà pure l’autrice che ha vinto più premi in assoluto, anche rispetto ai suoi colleghi maschi, ma la Connie Willis de “L’anno del contagio” mi ha deluso parecchio. E non conta il fatto che mi sembrava di conoscere già la storia dato che Crichton con “Timeline”, da cui hanno tratto un filmetto, l’ha copiata di brutto. Ci sono gli stessi elementi: archeologi che stanno scavando un sito medioevale e scoprono la tomba di un cavaliere; un laboratorio di ricerca che ha messo a punto una macchina del tempo; giovani studenti che decidono di tornare in un passato remoto, possibilmente in concomitanza di guerre sanguinose e contagi pestilenziali; poco tempo a disposizione per tornare al futuro e persino i dettagli come il traduttore simultaneo. Ah, Crichton! Perché sei tu, Crichton?
In ogni caso anche l’originale della Willis non è che sia un capolavoro. Ripetizioni continue, personaggi mono-maniacali e chiusi in se stessi (mi rifiuto di pensare che l’umanità sia così!), un tecnico con la febbre che ci mette 300 pagine per riuscire a confessare che ha fatto una cavolata. La traduzione italiana è lunga 570 pagine e francamente almeno 200 sono in più. Non mi dispiace leggere romanzi lunghi ma devono avere un motivo d’essere. Non vorrei fare la generalista ma mi sembra che la prolissità sia un problema soprattutto degli americani. Questo non vuol dire che smetterò di leggerli però da una scrittrice pluripremiata (10 Hugo e 7 Nebula) ci si può aspettare più concisione, tanto non deve dimostrare niente a nessuno. O no?
A onor del vero si è ben documentata sulla peste. Le descrizioni sui suoi effetti sono davvero realistiche e spaventose. Chi si lamenta per un raffreddore non è il caso che si cimenti in letture del genere, potrebbe lasciarci le penne dallo spavento!
In ogni caso anche l’originale della Willis non è che sia un capolavoro. Ripetizioni continue, personaggi mono-maniacali e chiusi in se stessi (mi rifiuto di pensare che l’umanità sia così!), un tecnico con la febbre che ci mette 300 pagine per riuscire a confessare che ha fatto una cavolata. La traduzione italiana è lunga 570 pagine e francamente almeno 200 sono in più. Non mi dispiace leggere romanzi lunghi ma devono avere un motivo d’essere. Non vorrei fare la generalista ma mi sembra che la prolissità sia un problema soprattutto degli americani. Questo non vuol dire che smetterò di leggerli però da una scrittrice pluripremiata (10 Hugo e 7 Nebula) ci si può aspettare più concisione, tanto non deve dimostrare niente a nessuno. O no?
A onor del vero si è ben documentata sulla peste. Le descrizioni sui suoi effetti sono davvero realistiche e spaventose. Chi si lamenta per un raffreddore non è il caso che si cimenti in letture del genere, potrebbe lasciarci le penne dallo spavento!
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