giovedì 30 dicembre 2010

Di nuovo fantascienza

Ci sono ricaduta, questa volta per colpa di Robert Silverberg, scrittore americano molto prolifico. Il romanzo che ho letto, "Shradrach nella fornace", è stato scritto nel periodo maturo dell'autore, vent'anni dopo che gli fu assegnato il premio Hugo.
Il protagonista è un medico al servizio del Dittatore che si trova a voler rispettare il giuramento d'Ippocrate, da una parte, e a cercare di limitare il poteri del vecchio e paranoico capo, dall'altra.
Sullo sfondo è presente la degenerazione organica, un virus che conduce l'umanità allo sfacelo ma che potrebbe essere debellato. Tuttavia viene trascurato dal dittatore perché funzioni come leva di obbedienza: solo pochi burocrati ricevono il vaccino, agli altri non rimane che sperare e intanto morire.
I temi sono interessanti; purtroppo il testo è scritto al tempo presente, le frasi sono semplici e i dialoghi elementari, come se Silverberg avesse qualche titubanza a concordare il contenuto con la forma.
Ci sono inoltre molte parentesi che rallentano inutilemente il ritmo - altro che novelas intercaladas di Cervantes! - e non aggiungono niente alla trama.
Se non altro il finale è lontano dall'essere banale. Il medico decide di rimanere accanto al dittatore, sebbene rischi la vita, anzi, trova un modo per renderlo innocuo. Il trucco non è così semplice, la storia recente lo dimostra. I dittatori non si fanno detronizzare né si accontentano del senato a vita...
Lo consiglio a chi vuole riflettere sui meccanismi del potere e sulle reazioni dei cosidetti onesti ai suoi soprusi.
Due stelle e mezza.

martedì 21 dicembre 2010

Pazzo canadese

Un amico mi regala "La versione di Barney" di Mordecai Richler, un ebreo canadese. Mai sentito nominare. Inizio a leggerlo con riluttanza: saranno le solite quattrocento pagine di finta biografia, in realtà di auto-elegia, dove non succede niente ma quel niente è ben raccontato. Infatti all'inizio il protagonista, sebbene privo di qualsiasi talento, s'intrufola in un gruppo di artisti canadesi trasferitisi a Parigi e si lascia incastrare da una di loro, una disegnatrice di chine pornografiche.
Poi si scopre che: il protagonista, Barney Panofsky, forse è un assassino; la prima moglie aspettava un figlio da un altro; la terza moglie è stato l'unico amore della sua vita; lui contrabbandava antichità egizie; che seconda moglie era una ricca borghese viziata; la prima una ninfomane; lui un alcolizzato e così via. Non necessariamente in questo ordine.
Il tutto condito da un'ironia che non risparmia niente e nessuno. Panofsky vuole raccontare la sua verità e questa, come si sa, fa male, persino ai morti. Sulla tomba di suo padre, dopo aver vuotato una bottiglia di whisky di marca, depone "anziché il solito sassolino, un tramezzino con la carne affumicata e un cetriolo sottaceto". I sassolini che si toglierà dalle scarpe saranno altri.
C'è di che divertirsi leggendo questo romanzo. Il protagonista è fuori di testa, e in parte deve esserlo stato anche l'autore. Provo un po' d'invidia: conducendo una vita tranquilla non si può sperare di diventare un bravo scrittore, tantomeno che il proprio romanzo diventi la sceneggiatura di un film in uscita il prossimo gennaio con, guarda caso, uno dei miei attori preferiti, Paul Giamatti.
Si scopre se Barney è veramente un assassino solo all'ultima riga dell'ultima pagina e ci si domanda: "Come ho fatto a non capirlo?!"
Insomma è un polpettone all'apparenza e nello stile, frammentario e caotico, ma non nella sostanza. E' come un buon Ruben (il tramezzino già citato). Traboccante di carne di manzo affumicata, che sembra che potrà esplodere da un momento all'altro, ma gustoso e indimenticabile.

mercoledì 8 dicembre 2010

Fame, amore e...

"Il prete bello" di Goffredo Parise potrebbe intitolarsi anche "Dei sospiri e delle fantasie". Il romanzo si ambienta a Vicenza negli anni 1938-40 e ha come protagonista un gruppo di zitelle, di diversi ceti sociali, che abitano nello stesso palazzo del centro storico e sono accomunate dall'infatuazione per il parroco.
Egli non è il protagonista, nonostante il titolo, e non fa nulla per meritarsi tante attenzioni ma, ahimè, la sua prestanza, il suo coraggio durante la Guerra di Spagna, le sue attitudini letterarie nonchè una certa propensione alla mondanità ne fanno il bersaglio di una devozione generale.
I colpi bassi che si riservano le zitelle pur di mettere fuori gioco le concorrenti e attirare la di lui benevolenza sono ben più gravi della fame, del freddo e della minaccia di una guerra mondiale.
Il narratore, un ragazzino indigente che abita in mezzo a loro, le descrive con ironia ma anche con benevolenza, un po' alla Manzoni. Approfitta della loro debolezza e allo stesso tempo le compatisce: come si fa a non innamorarsi di don Gastone, di quegli occhioni, di quella Fede e Ardimento?
Nessuna delle zitelle otterrà l'agognata ricompensa, che andrà a finire tra le sgrinfie di una pecorella smarrita: la felicità non appartiene a questo mondo e, per quanto ci diamo da fare, per guanto sgomitiamo, alla fine non ci rimane altro che asciugarci le lacrime.
Favola morale sulla vanità dei desideri. Da leggere per non dimenticare da dove veniamo e dove andremo a finire tutti quanti.

domenica 14 novembre 2010

In Bruges

Mi sono lasciata convincere dall'ambientazione, Bruges, una città che mi è rimasta nel cuore, e ho letto "Il quadrato della vendetta" di Pieter Aspe.
Cosa potrà mai succedere in una tranquilla cittadina del Belgio dove l'esperienza più forte che si possa fare è bere la Mort Subite, una birra che fa dodici gradi?
Cosa potrà inventarsi uno scrittore per tessere una trama criminale in un luogo così romantico che il sindaco ha proibito i cartelloni pubblicitari per non infastidire la contemplazione dei monumenti?
Ero curiosa di sapere se Aspe avrebbe cucito un merletto a mano o se mi avrebbe spacciato come "originale belga" una grossolana imitazione dei gialli americani. Devo dire che, purtroppo, è caduto sulla seconda ipotesi.
Il protagonista, il proprietario di una famosa gioielleria del centro, ha una moglie che lo tradisce da una vita con il migliore amico. Fin qui tutto regolare. Poi viene fuori che ha quattro figli di cui solo una "normale": il maschio è omosessuale, una è suora, un'altra è tossica. Ci sono una storia d'incesto e una di vendetta, che si consuma dopo cinquant'anni dal torto subito, e il vendicatore si diletta a comporre quadrati enigmistici in latino sul tipo di quelli dei cavalieri templari.
E pensare che io credevo che i criminali non avessero la laurea bensì il cappello alla pescatora e le unghie sporche di terra!
Poi ci sono un rapimento e una storia di sesso tra il capo delle indagini e il sostituto procuratore, una belloccia meglio di Miss Belgio.
Ma gli magistrati non erano brutti e cattivi? Come sono ingenua...
Cosa manca? Ah, la nuora che se la fa con il patriarca (quella che aveva accettato di sposare il figlio gay per nasconderne al mondo le tendenze) e un ragazzo che soffre di una malattia rara.
Credetemi, neanche Dan Brown avrebbe saputo fare di meglio con un'ambientazione così.
Povera Bruges! Ho paura di tornare a visitarti: magari lettori fanatici di romanzi pop-corn cercano tra le tue strade l'indirizzo esatto della gioielleria dove è iniziato il racconto per scattare una foto ricordo e deporre un fiorellino.

P.S. Ma Aspe, dovo aver utilizzato tutti questi spunti, di cos'altro potrebbe scrivere? Non gli rimane che la biografia di Berlusconi.

martedì 2 novembre 2010

Gnam gnam

Detto, fatto.
Ho appena finito di digerire "I magnagati" di Virgilio Scapin, vicentinissimo.
Si tratta di una raccolta di aneddoti divisa in tre parti: le abitudini culinarie dei vicentini; i luoghi dove tali abitudini possono trovare soddisfazione; il piatto-re, ovvero il baccalà. Non dimentichiamo che Scapin era Gran Priore della Confraternita del baccalà.
La raccolta non ha la poesia de "I mangiatori di civette" ma è altrettanto interessante perché ci riporta in un'epoca, quella tra le due guerre mondiali, in cui chi voleva mangiare doveva arrabattarsi ma anche chi faceva l'oste non se la passava tanto meglio.
Chi apriva un'osteria, spesso, all'inizio offriva solo da bere e doveva accettare che i clienti si portassero i piatti da casa (chi era fortunato viaggiava con una bistecca dentro il cappotto). Alcuni osti si facevano pagare a fine mese e chiudevano un occhio se il cliente "perdeva" il conto.
Poi, quando l'attività decollava, si potevano offrire piatti locali come i bigoli al ragù, il fagiano, la faraona, le trippe, gli spiedi di uccelli, catturati senza tante preoccupazioni ecologiche, e l'immancabile baccalà.
Chi si faceva un nome poteva vedersi riempire il locale da nobili facoltosi o da troupe televisive, come quella de Il comissario Pepe.
Scapin ci dà un elenco di una ventina di ristoranti da visitare per poter dire di essere dei veri vicentini, alcuni dei quali in paesi che non ho mai sentito nominare, tipo Secula e Valdimolino. Ci racconta come tali ristoranti siano nati, come si siano ampliati, grazie al lavoro instancabile e alla intraprendenza delle mogli dei proprietari, e, qualche volta, come siano morti per il mutare delle abitudini dei vicentini.
Prima che muoia anche il ricordo, lasciamoci cullare dalla prosa nostalgica di Virgilio Scapin.

sabato 23 ottobre 2010

Esterofilia

Due giorni fa sono andata alla presentazione dell'ultimo romanzo giallo di Joe R. Lansdale, autore texano. Memore di quello che aveva affermato McCann a Mantova, e cioè che gli italiani leggono tantissimi libri tradotti (almeno il 40% delle pubblicazioni nel nostro paese è di origine straniera) mentre gli americani leggono quasi esclusivamente roba loro, mi viene da sorridere quando Lansdale dice: "C'è un coraggioso italiano che scrive sulla mafia ma non mi ricordo il suo nome". Saviano, si chiama Saviano.
Però. Gli americani, e non sto parlando di gente comune ma di scrittori, che si suppongono essere anche buoni lettori, non sanno il nome nemmeno di un loro collega italiano contemporaneo. Che tristezza. Si meritano poi la nostra incondizionata ammirazione?
Questa domanda mi porta ad aprire il foglio di excel nel quale ho segnato tutti i libri letti dal 1999, anno successivo alla laurea, da quando mi sono dedicata a ciò che desideravo e non ciò che avrei dovuto desiderare. Risultato: su 178 libri, al primo posto ci sono 52 americani e al secondo 34 italiani.
A volte si leggono gli stranieri per necessità: i migliori romanzi di fantascienza, ad esempio, sono americani. A volte per moda.
L'unico giallo che ho affrontato di Lansdale, tanto celebrato, è "Bad chili", infarcito di umorismo ma anche di violenza e volgarità. Il tema dell'omosessualità domina inconstrastato. E' proprio necessario fondare la propria immagine sulla scurrilità e su argomenti scottanti per diventare famosi?
A volte rimpiango proprio i bei tempi andati, Watson.
Propongo un nuovo slogan: leggiamo a chilometri zero.

sabato 16 ottobre 2010

Perplessità

Cosa succede quando, su un pianeta di tipo terrestre, l'Ente Universale per le Forme Intelligenti manda una missione per l'incremento tecnologico che, invece di favorire la specie più avanzata, dona un'astronave a una razza di cavernicoli?
E' quello che si domanda Ursula K. Le Guin in "Il mondo di Rocannon".
Non succederebbe proprio niente se i cavernicoli, come ringraziamento, non donassero agli uomini un gioiello rubato e se la legittima proprietaria di quest'ultimo non decidesse d'inseguirlo attraverso le stelle. Al suo ritorno, dopo un'assenza che a lei è sembrata di poche ore ma che è durata molti anni, la principessa trova il suo regno in pericolo. Degli stranieri hanno deciso di fare di quel mondo una base militare. Favoriti dalla posizione defilata del pianeta e dalla sua natura incontaminata, stanno preparando l'attacco decisivo all'Ente Universale.
L'ambientazione, che ricorda più un fantasy medioevale che un romanzo di fantascienza, è costellata di fortificazioni, foreste, villaggi rurali, innevate montagne tanto care alla Le Guin (vedi "La mano sinistra delle tenebre"), nonché di animali volanti simili a piccoli draghi. Non è propriamente il paesaggio che ci si aspetterebbe leggendo della SF.
Il protagonista, il cui nome si trova nel titolo, combatte le avversità a mani nude. Uno dei pochi riferimenti alla tecnologia si trova alla fine e costituisce una forzatura. Dopo un lungo e pericoloso viaggio verso la base del nemico, non vi è la classica battaglia finale, vista la disparità delle forze in campo, ma un colpo di spugna che lascia perplessi.
Una delle opere meno riuscite della scrittrice.

giovedì 14 ottobre 2010

Vergogna

Ieri sera, facendo zapping tra i telegiornali:
1) Cesara, su Canale 5, comincia con un largo reportage sul salvataggio dei minatori cileni. Trivella in funzione, parenti dei minatori in attesa, finalmente l'uscita del primo minatore rimasto sottoterra per ben settanta giorni. Mi commuovo e, mentre sono così vulnerabile, la giornalista, o forse sarebbe meglio chiamarla fruttivendola, osa paragonare la drammatica sequenza dei minatori con l'uscita dalla casa del Grande Fratello di quattro mentecatti. Adesso sono indignata.
2) Giro su La7 e trovo un certo Enrico che parla della sospensione della trasmissione di Santoro per dieci giorni, cioè due puntate, perchè quest'ultimo ha offeso in diretta il suo datore di lavoro. Sacrosanto. Ma poi Enrico, detto anche la Fenice, si domanda perplesso se fosse il caso di applicare il regolamento alla lettera: non è bello dire le parolacce in televisione ma, perdindirindina, Annozero fa un sacco di ascolti! Chi ci rimette? Santoro o la Rai? Sono basita. Non avevo capito niente: è l'Auditel che governa la nostra vita, non il buongusto.
3) Ultimo tentativo. Rai1. Non mi ricordo neanche il presentatore, a un certo punto sono tutti uguali. Si sta discutendo sull'opportunità per Montezemolo di entrare in politica. Cosa sento?! Montezemolo non ha più di settant'anni? Alla sua età, secondo me, dovrebbe scegliere se dedicarsi ai nipotini a tempo pieno o iscriversi all'Università della terza età. Non posso crederci. Siamo in mano a una banda di dinosauri.
Oggi non ho guardato nessun telegiornale, tanto, per le "notizie" che ci danno...

sabato 9 ottobre 2010

Per sole donne

Questa volta escludiamo i maschietti e parliamo di Dorothy Parker, giornalista specializzata in commenti ironici sulla borghesia newyorkese della prima metà del secolo scorso, poetessa e scrittrice. Per la sceneggiatura di "E' nata una stella" (1937) fu candidata all'Oscar.
Definirla una donna spregiudicata è poco: ebbe due mariti e numerosi amanti, difese i diritti dei neri e degli ebrei, fu accusata di essere comunista durante il maccartismo. Era un'alcolizzata e tentò il suicidio per ben tre volte; alla fine morì d'infarto. Nonostante tutto era un'artista affermata, richiestissima nei salotti mondani e molto ben pagata dalle testate presso le quali lavorava: Vanity Fair, Vogue, New Yorker, per citarne alcuni. Il motivo è presto detto.
Aveva un tocco ironico ma non crudele, una vena polemica ma non offensiva, una visione disincantata ma non drammatica. Le donne sono così. Anche se avrebbero mille ragioni per ribellarsi e spaccare tutto, non rinunciano mai alla ragione e, se proprio devono diventare violente, lo fanno contro se stesse e non con chi le ama.
Io ho letto una raccolta di suoi articoli, "Uomini che non ho sposato", e me la sono spassata. Adoro come intesse i monologhi di donne che si ritrovano a cene noiosissime, con accanto commensali vuoti che non sanno far altro che disquisire di cetriolini e di quanto fosse buona la minestra, o di ragazze che sono invitate a party movimentati ma non possono staccare il fondoschiena dal divano perchè la giarrettiera s'è rotta e la calza scivolerebbe fino alla scarpa.
Scrive in modo moderno, affatto ingessato. Ciò che è ingessato è il genere maschile, imbranato nelle avances e deludente nel menage familiare. E' passato mezzo secolo ma niente è cambiato!
Consiglio la lettura di Dorothy Parker a tutte: impossibile non immedesimarsi con questa donna (ho detto donna e non scrittrice) sincera e graffiante.

mercoledì 6 ottobre 2010

Ricetta californiana

Ovvero: come preparare una zuppa e vincere il Leone d'Oro

Ingredienti: un attore hollywoodiano divorziato, la figlia dodicenne, due ballerine di lap-dance, una Ferrari, un elegante albergo a Los Angeles, vicine di stanza allupate (quanto basta).
Procedimento: prendete una telecamera e insistete sull'attore mentre si fa la barba a mezzogiorno, dopo essersi preso l'ennesima sbronza, zoomate sui suoi tatuaggi per poi allontanarvi e riprendere l'impersonalità della stanza d'albergo. Seguite il protagonista mentre si dirige in piscina per distendersi su un lettino a prendere il sole e fate un fermo-immagine sugli occhiali firmati. Mescolate il tutto con l'arrivo della figlia ma solo finché anche lei non si sarà messa il costume. Lasciate riposare in frigorifero per mezzora. Ho detto mezzora! Dopodiché caricate la telecamera su un'auto e seguite la Ferrari del protagonista che accompagna la suddetta figlia a una lezione di pattinaggio su ghiaccio. A questo punto, se avete un mattarello a portata di mano, colpitevi più volte in un punto vitale per evitare di addormentarvi e far perdere all'impasto la sua inconsistenza. Frullate con delle pale di elicottero - quello noleggiato dall'attore per accompagnare sempre lei a un campo estivo nei pressi di Las Vegas - e mettete in una pentola di ghisa il composto così ottenuto.
Tempi di cottura: basterebbero i primi dieci minuti per far appassire di noia ma vi consiglio di tenere il fuoco lento finché l'attore non si deciderà a mollare la sua rumorosissima e antiecologica auto e farsela a piedi. Se qualcuno pensa che abbia finito la benzina, sbaglia: è la pellicola che ha deciso di essersi impressionata troppo.
Servire: "Somewhere" di Sofia Coppola va servito in piccole dosi, piccolissime, onde evitare indigestione d'inutili fermo-immagine sugli alluci di un attore che, a parte la panza, non ha proprio niente di memorabile.

martedì 28 settembre 2010

Festival della letteratura

Giornata calda ma non afosa. Scarpe da ginnastica, zainetto in spalla e cartina di Mantova sotto mano, mi dirigo verso il centro con due ore d'anticipo sul primo incontro a cui parteciperò. La città, che mi ricordavo come un mortuorio, è invasa di gente. Più tardi scoprirò che si tratta di ventimila persone. Trovo la biglietteria, ritiro la prenotazione per un autore che non ho mai sentito nominare (quello che avrei voluto vedere è esaurito) e cerco sulla carta il chiostro del Museo Diocesano.
Ho il tempo di fermarmi a mangiare qualcosa. Dio solo sa da dove sono spuntati tutti questi bar a Mantova!
Nel primo pomeriggio, in perfetto orario, si comincia. Il mio uomo, un irlandese trapiantato a New York, è un quarantacinquenne pelato, con sciarpa che fa molto scrittore impegnato, e occhio lucido. Durante l'intervista viene fuori che la sera prima è stato a cena con un altro autore americano invitato alla convention e che hanno bevuto come spugne. Per farci capire bene, intona la canzone irlandese che l'ha reso celebre tra le cameriere mantovane.
Si parla anche di argomenti seri, naturalmente. Di Torri Gemelle, di attacchi terroristici, di moschee, di "fuck that boy" che intende bruciare il corano. Le cinquantenni che partecipano all'incontro, la maggioranza, sono in visibilio. Alla fine faranno pure domande intelligenti e qualcuna oserà vantarsi di aver letto i suoi libri.
Vabbè, io non ne ho letto manco uno ma credo di avere il diritto di farmi autografare una copia di "I figli del buio". Mi metto in coda e aspetto paziente il mio turno, esercitandomi a fare lo spelling del mio - semplicissimo - nome. Giunta al cospetto di Colum McCann, vengo colta da timidezza e "canno" lo spelling alla grande. Lui fa una faccia a metà tra il post-sbornia e l'avant-spettacolo. Mio marito immortala a tradimento la mia défaillance linguistica e mi regala una delle foto più divertenti della mia vita.
Ho deciso: tornerò al festival anche l'anno prossimo.

domenica 19 settembre 2010

Indovina chi è

Questa volta non dico subito il titolo del libro che ho appena finito di leggere. Lo lascio indovinare, come l'identità dell'assassino in un legal thriller, seminando indizi qua e là.
Si ambienta in Italia e il suo autore, che è stato ospite al Festival della Letteratuta di Mantova una decina di giorni fa, ha un lavoro che non c'entra nulla con la letteratura. Infatti il suo stile è colloquiale, persino sgrammaticato, e non ha mai visto un congiuntivo in vita sua. Frasi tipiche: "...il contenuto di quei fascicoli non poteva importarmi di meno..." e "Avevo pensato tante volte che quella situazione non poteva durare e che dovevo fare qualcosa". Imparare l'uso della consecutio, direi io. Per fortuna la frequenza di espressioni colorite e volgari ci rammenta per tutto il romanzo che non stiamo leggendo un autore che si prende sul serio. Se non altro si concentra sulla trama e la storia procede con buon ritmo, allentato solo dall'immancabile flirt del protagonista con una vicina di casa "gnocca".
La storia si svolge a Bari, il protagonista è in crisi esistenziale e odia gli ascensori. Per chi non avesse ancora indovinato, vorrei aggiungere che fuma, compra vino bianco della Napa Valley e, vergognandosi di bere decaffeinato, fa numerosi isolati a piedi pur di non ordinarlo al bar più vicino e farsi beccare in fragrante da conoscenti. E' un avvocato, insomma. Su di lui sono stati scritti più casi, tradotti in varie lingue. E' pubblicato da una casa editrice del Sud ed è testimone inconsapevole del successo del suo caro autore.
Non posso dirvi altro! Il suo numero di scarpe dovrete indovinarvelo da soli. Voglio solo precisare che se appartenete alla categoria della casalinga di Voghera, amante delle storie ben scritte ma non auliche, lo troverete irresistibile.

P.S. Chi non avesse la vaga idea di chi stiamo parlando è pregato di scrivermi un benedetto commento.

domenica 12 settembre 2010

La banalità del male

"Una piccola storia ignobile", di Alessandro Perissinotto, è un noir che si ambienta tra Bergamo alta e l'hinterland milanese. La protagonista, una psicologa quarantenne e disoccupata, accetta d'investigare sulla personalità di una ragazza italo-francese che ha avuto un incidente stradale. La sorellastra di ques'ultima, una ricca milanese con sensi di colpa, è colei che convince, a furia di assegni, la nostra psicologa a prendersi carico di una terapia così particolare: la francese è morta.
La storia non sarebbe male se l'autore non si fosse messo in testa di tenere d'occhio la protagonista ventiquattr'ore su ventiquattro e di raccontarci, come riempitivo, tutte le sue più insignificanti azioni. Purtroppo la psicologa, separata dal marito, non conduce una vita esaltante. Le sue massime preoccupazioni consistono nel dar da mangiare alla gatta (crocchette o scatoletta? Questo è il dilemma!) e nel far compagnia alla vedova del piano di sotto, andando da lei a farsi offrire un piatto di casoncelli.
Non è che l'ansia del lettore, trovandosi con lei di fronte all'armadio e alla domanda se indossare i soliti jeans, aumenti. E nemmeno il desiderio di continuare nella storia. I giusti momenti di pausa nella movimentata trama di un giallo non devono essere fine a se stessi ma comunicare qualcosa, portare da qualche parte...
Il punto di vista della psicologa appiattisce il romanzo. Sarebbe stato bello se Perissinotto avesse lasciato spazio anche agli altri personaggi, non solo alla nebbia che, invece di creare un'ambientazione minacciosa, con la sua ostinata presenza sembra una parodia di se stessa.
Le altre due storie sulla figura di Anna Pavesi, l'autore mi perdonerà, non rientrano nella lista delle mie prossime letture.

domenica 5 settembre 2010

Amarcord

A volte, nelle polverose librerie di famiglia, si scovano perle di cui non si sospettava nemmeno l'esistenza o che si erano evitate in modo sistematico perchè non appartenenti al genere internazionale-bestseller-misteroteologico che va tanto di moda.
Ebbene, in questa sede voglio spezzare una lancia in favore degli autori locali come Virgilio Scapin o Cesare Marchi, di cui ho appena letto "Quando eravamo povera gente".
Il primo scrive in dialetto veneto quindi potrebbe risultare ostico ai più - anche se il recente successo di Camilleri farebbe pensare al contrario - con una poeticità sconvolgente, fatta di piccole cose, di abitudini contadine dimenticate, di nomi di frutti spariti dal commercio, di metafore mutuate dalla dura vita a contatto con la natura. Non mancano gli aneddoti divertenti, soprattutto a sfondo ludico-sessuale, che nel caso di Scapin dimostrano come si possa essere evocativi senza scadere nella volgarità.
Marchi, giornalista e saggista, nonchè personaggio televisivo, scrive in italiano, un italiano filologicamante corretto nel quale s'intravedono un certo gusto del classicismo e l'appassionato amore per il latino. Non per niente i suoi due lavori più famosi sono "Impariamo l'Italiano" e "Siamo tutti latinisti". Il bello di questo scrittore però, secondo me, è che non si crogiola nelle sue conoscenze per il puro gusto della citazione ma che le usa per comprendere e spiegare il comportamento dei nostri nonni. Ne scaturiscono una serie di scenette memorabili: "Le sgalmare dei socialisti", "Pesare il prossimo", "Il baccalà dei frati", "Quando la grappa ruttava", dalle quali scopri che tuo padre ha rubato delle battute di cui si vanta come fossero sue.
Un solo esempio di umorismo marchiano (tratto da "Genio alla rovescia"):
Un commissario d'esame, spazientito per la scena muta del candidato, volle fare lo spiritoso, suonò il campanello e ordinò al bidello: "Per favore, porti un po' di fieno". Il candidato, come se risorgesse da un letargo secolare: "E per me, un'aranciata".
Si sta parlando di un autore che ha vinto, presso il Salone Internazionale dell'Umorismo di Bordighera, il famoso Dattero d'oro. Mica bruscolini.
Quindi, se vi capita sottomano un libro di memorie, leggetelo. Potreste imparare, o ricordare, a seconda di quanti anni avete, come vivevano i nostri nonni. E non erano solo stenti per le guerre, anzi.

sabato 28 agosto 2010

Un classico

Mi domando perché abbia indugiato in tanti libri di fantascienza, anche cyberpunk, senza prima aver letto qualcosa di Philip K. Dick.
"Cronache del dopobomba" è un piacevolissimo romanzo che narra di uomini e donne scampati alla terza guerra mondiale che, all'epoca in cui è stato scritto, il 1964, era creduta imminente.
Il romanzo si ambienta in una zona poco conosciuta della California, West Marin, e descrive un'esistenza dura ma bucolica, una vita senza tecnologia ma tutto sommato accettabile. Non esistono più l'elettricità, l'acqua corrente e i mezzi di trasporto veloci tuttavia ricompaiono la solidarietà tra vicini di casa, il concetto di sacrificio per il bene comune e l'amore per gli animali. Un paio di protagonisti sono persino dei fungaioli, cosa che mi ha divertito moltissimo dato che sono stata per anni un'appassionata di funghi e come i protagonisti ne conosco i nomi latini.
I cattivi di turno sono due: il tradizionale scienziato pazzo e un focomelico. Il primo subisce una parabola discendente mentre il secondo fa una scalata al potere che si estende sino all'unico abitante di un razzo in orbita attorno alla Terra.
La trama è ben congegnata e sono sicura che possa piacere anche a chi non frequenta il genere. Non ci sono futuri lontani e incomprensibili, c'è solo la reazione psicologica di alcune persone al regresso della civiltà. La postfazione, poi, è un piccolo capolavoro. Dick si scusa per non aver azzeccato le previsioni: si duole, in pratica, che non sia scoppiata una guerra nucleare. Questo sì che vuol dire credere al proprio lavoro di scrittore!
*****

venerdì 27 agosto 2010

Poesia veneta

Su richiesta di un amico, che desidera rimanere anonimo, pubblico questa composizione in dialetto veneto. Per la vicinanza con la fonte, mi limiterò a riportare le quartine senza fare i miei soliti commenti.

El bidòn

Un giorno, in tuto el quartiere
l’è rivà el novo bidòn del seco
ma 'na vecia no gh’en vol savere:
nel so’ luamaro no la voe altrui beco.

No la fa la racolta diferensiata,
ansi, no la indovina un casoneto.
Ne l’umido no la mete la patata
smarsa ma un toco de plastica neto;

ne la carta buta le latine de bira
e ne lo sfalcio i butiglioni de vin.
La xè orba: dove tira, tira
basta che no la veda el vixin.

Co’ la storia del bidòn la x’è fusa.
“Mì no che no lo meto fora!”
la ga dito. “Sto trapeo x’è 'na scusa
par controlarne: el ga un cip sora.

Semo mati? Neanca fúsimo in Rusia!
Intanto i foresti ì pasa de note
e ì méscia el so sporco co 'a to spuxa.
Te te ritrovi a far a bote

con el comùn che manda 'na multa salata
a tì che no te ghe fato un’aca.
Me vuío far divegner mata?
Mì, el seco, lo mando in vaca!”

lunedì 16 agosto 2010

SF e religione

Ho letto due romanzi di fantascienza scritti nello stesso periodo: “Dune” nel 1965 e “Pianeta d’acqua” nel 1966, rispettivamente di Frank Herbert e di Jack Vance, americani.
I due romanzi sono molto diversi nelle tematiche, il primo tutto rivolto al futuro grazie alle proprietà del melange, una droga che permette di allungare la vita e vedere eventi che devono ancora accadere; il secondo rivolto al passato, visto che gli uomini, rifugiatisi su piccoli atolli privi di materie prime, non conoscono la tecnologia e non capiscono appieno il significato delle memorie lasciate dai loro antenati.
Anche la trama è molto diversa. In Dune il protagonista, un giovane duca, deve vedersela con innumerevoli nemici: con gli assassini di suo padre appartenenti alla nobile famiglia rivale, con l’imperatore stesso (che ha fomentato la faida), con i misteriosi abitanti del desertico pianeta Arrakis, con delle violente creature che distruggono il prezioso melange. In Pianeta d’acqua il protagonista, uno dei discendenti di duecento criminali evasi da un pianeta penitenziario e atterrati in un mondo dominato dalle acque, deve combattere “solamente” contro una creatura simile a un’aragosta gigante.
In tutti e due i romanzi, però, il filo conduttore è la religione.
In Dune essa ha il potere di donare speranza alle popolazioni del pianeta Arrakis, ovvero i Fremen, che attendono l’arrivo di un messia che li affranchi sia dalla sottomissione politica sia dall'asprezza del contesto naturale. La venuta di tale messia comporta effettivamente la realizzazione delle speranze.
Nel Pianeta d’acqua la religione è una sorta di arma di coercizione in mano a una élite che desidera conservare il potere mantenendo lo status quo, e cioè la sudditanza al Re Kragen, l’enorme e vorace creatura degli abissi. Ribellarsi significa creare tensioni sociali, scoppi di violenza e persino morte.
E’ interessante vedere come il linguaggio si adegui al contenuto mistico in entrambe le opere, ma soprattutto in Dune, tanto che i futuri sceneggiatori di Guerre Stellari e Avatar lo saccheggeranno a piene mani (a chi non viene in mente: “Che la Forza sia con te!”).
In una società materialista come la nostra riprendere in mano opere di cinquant’anni fa e scoprire come alcuni aspetti della nostra vita che sono passati in secondo piano, in questo caso la religione, fossero tanto centrali fa riflettere.
P.S. Dune, con i sui 12 milioni di copie vendute in tutto il mondo, è il primo romanzo di fantascienza di sempre.

lunedì 2 agosto 2010

Isole

Nell'isola di Robinson Crusoe ci si sente soli, in quella di Arturo incompresi, in quella de Il Conte di Montecristo nascosti, ne L'isola del tesoro ubriachi e ne L'isola della desolazione smarriti. Nell'isola-che-non-c'è talmente confusi da non saper distinguere la realtà dalla fantasia ma nell'isola di Lost, telefilm americano, perderete totalmente la bussola, e forse diventerete pazzi del tutto. L'isola de Il signore delle mosche vi sembrerà un parcogiochi in confronto! Ma andiamo con ordine...
Dopo essere sopravvissuti a una catastrofe aerea, vi ritrovate su un lembo di terra non segnato nelle carte nautiche; popolato da orsi polari nonostante il clima tropicale e infestato da una colonna di fumo nero che appare senza motivo e che, senza motivo, massacra chiunque incontri sulla sua strada. Vi imbattete in obsolete stazioni di ricerca sul magnetismo dell'isola, in un ex-velista che preme un pulsante ogni 108 minuti - altrimenti c'è la fine del mondo - in una biologa sadica che si diverte a torturarvi, in un gruppo di autoctoni che vi odia a morte e vi rapisce. C'è pure un altro gruppo di superstiti del vostro volo che non si fida di voi e vi sparacchia per sbaglio. E poi: un pluri-omicida che crede che l'isola abbia un'anima, un santone che sta in una capanna a far volare le sedie, un milionario che ha scoperto l'isola e che vuole tenerla tutta per sè, quindi cercherà di farvi fuori.
Mettiamo caso che siate arrivati sull'isola con problemi vostri, tipo che avete un cancro o che siete costretti su una sedia a rotelle, di fronte a una siffatta serie di disgrazie, non vi girerebbero un po'? Infatti sull'isola si diventa violenti, se non assassini. Persino le mansuete donne coreane, persa la fede, potrebbero tentare di sgozzarvi con un collo di bottiglia... Le normali regole di convivenza vengono sovvertite, non ci si parla, si diventa nemici di tutti, si tenta di sopraffarsi a vicenda.
Per noi che vi guardiamo è consolante. Dopo una giornata di duro lavoro e di pacifica routine, ci si può immedesimare in un naufrago senza freni inibitori e immaginare di essere libero di dare sfogo agli istinti più bassi. Infatti il telefilm ha avuto un successone. Sta andando in onda la quinta e, purtroppo, ultima stagione. Gli sceneggiatori non sapevano più quale disgrazia inventarsi. Dopo i salti temporali e la bomba atomica, state finalmente arrivando alla battaglia tra Dio e il Diavolo. Magari siete morti nell'impatto al suolo e tutto quello che avete visto finora è la nostra società che vi passa di fronte agli occhi.
Lo ammetto, sono caduta nella botola di Lost e mi sarà difficile riemergerne.
Qualcuno dica agli sceneggiatori che le sfortune non hanno mai fine!

lunedì 26 luglio 2010

Il mistero di Maigret

Attorno alla figura di Maigret sono stati scritti 76 romanzi e 26 racconti. Se il "pezzo grosso della Polizia giudiziaria" non avesse avuto successo, Georges Simenon non avrebbe perso quarantuno anni a scrivere su di lui... ma Maigret ne ha avuto di successo, eccome! La spiegazione resta un mistero dato che egli è anziano, tutt'altro che attraente e, sebbene sia portato per le indagini poliziesche, è decisamente negato per i rapporti umani. Parla pochissimo, evita la mondanità e, in alcuni casi, rasenta la maleducazione. A detta del suo stesso creatore, Maigret è: "solitario, scontento, ripiegato su di sé, ostinato" e non si cura "di apparire ridicolo". Un mostro. Persino Miss Marple sembra un angelo in confronto.
E allora perchè le storie in cui lui è il protagonista sono diventate così celebri? Francamente non per la trama. Ne ho lette quattro o cinque e non me le ricordo. Sono un po' come quei film di cui dici: "Ah, bello!" e l'attimo dopo non ti ricordi più chi era il cattivo. Forse per l'atmosfera. Leggendo "All'insegna di Terranova", che è il romanzo che ho appena finito, mi sembrava di essere in riva al mare, di sentire lo sciabordio delle onde contro il vecchio peschereccio e l'odore del merluzzo salato (male). Ma basta una bella descrizione d'ambiente per fare un capolavoro?
E poi perché, una volta risolto il caso, Maigret non sembra contento e scappa via senza salutare nessuno? Perché ha dovuto rinunciare alle ennesime vacanze in Alsazia? Perchè la vita che attende il protagonista, scagionato dall'accusa di omicidio, è una vita scialba e dannatamente borghese? Forse doveva riuscire a suicidarsi per ottenere la simpatia di Maigret?
Boh, chi riesce a capirlo questo genio dell'investigazione? Sarà famoso perchè ci stiamo ancora scervellando nel tentativo di dargli un senso...

sabato 17 luglio 2010

Capovolgimento

Orfana dai mondiali di calcio, ho letto un romanzo africano, "Gli Stati Uniti d'Africa" di Abdourahman A. Waberi. Lavoro interessante per il capovolgimento di prospettiva: l'Africa è il continente civilizzato mentre il resto del mondo, tra cui la cara Europa, un focolaio di lotte tribali e pulizie etniche. La protagonista, una bambina nata nella repressa Normandia, viene abbandonata dalla madre indigente e adottata da una rispettabile famiglia della borghesia di Asmara (Eritrea).
La storia si focalizza sul viaggio interiore della protagonista che, diventata adulta, desidera, come tutti gli adottati, entrare in contatto con la madre biologica. Non c'è azione, non c'è trama nel senso stretto della parola, c'è solo il pregnante dialogo tra l'autore e la protagonista, che si danno del tu, dando vita al primo romanzo in seconda persona che io abbia mai letto. Gli Stati Uniti d'Africa si fa leggere volentieri per le sue descrizioni, la sua atmosfera calda e allegorica, l'originalità compositiva. Lo consiglio a chi vuole immergersi per poche ore in una lettura che trasuda di vita e di morte, di speranza e di abbandono, ma non a chi è fermo nelle sue convinzioni e non sa immedesimarsi negli altri.
L'autore è uno di quelli utopisti, uno di quelli che pensa che la letteratura possa migliorare il mondo. "Se i racconti rifioriscono, se le lingue, le parole e le storie tornano a circolare, se la gente impara a identificarsi con personaggi nati al di là della frontiera, questo sarà sicuramente un primo passo verso la pace".
Magari! Nel frattempo, mentre aspetta che le sue opere di denuncia facciano il loro effetto, vive nella "sottosviluppata" Francia... ma si sa: nessun profeta è compreso in patria.
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domenica 11 luglio 2010

Tu vo' far l'americano!

Qualche anno fa lessi "Io uccido" di Giorgio Faletti e mi piacque tantissimo. Superai il pregiudizio che un dj non sapesse scrivere, e bene, pregiudizio che qualcuno mantiene ancora oggi nei sui confronti, nella convinzione che abbia un gost writer. Da allora non lessi altri suoi romanzi perchè, con tutti gli autori che ci sono, non mi piace soffermarmi sullo stesso troppo a lungo. Ma a volte non sei tu che scegli loro, sono loro che scelgono te, e così mi sono imbattuta in "Niente di vero tranne gli occhi" e mi sono arresa.
Che scriva in modo fluido, non c'è dubbio; che sia capace di mantenere viva l'attenzione del lettore per cinquecento pagine, non ci piove; che le due trame che compongono il romanzo, quella dell'investigatore newyorkese e quella della poliziotta romana, si fondano con un certo senso, ci può anche stare. Ma che la poliziotta sia stata concepita da due ovuli che si sono fusi dando origine a una sorta di "chimera", mi sembra tanto una cavolata alla Dan Brown. E mi dispiace. Era tutto così piacevole. Bastava giustificare il trasferimento della poliziotta a New York, dopo l'operazione agli occhi, con il desiderio di trascorrere la convalescenza dalla madre, che viveva lì. Sarebbe stato così semplice! Forse troppo. La tentazione di stupire con qualche dettaglio infondato e psichedelico è sempre in agguato dietro l'angolo. Il problema è che poi la gente ci crede... come la storia del braccialetto di caucciù del valore di 20 centesimi che viene venduto a 50 euro con la scusa che allineerebbe il campo magnetico del corpo umano con quello della terra, regalando senso dell'equilibrio e maggiore forza. Neanche fosse un'arma Jedi! Perchè sentiamo il desidero di credere in queste baggianate? Coraggio, Faletti, sii fiero della tua italianità. D'accordo, non possiamo essere tutti impegnati come Saviano, ma da qui a mangiare solo hamburger e patatine fritte ce ne passa!
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lunedì 14 giugno 2010

Sorpresa

Sarà il caldo, sarà la voglia di vacanze, sarà che non posso sempre leggere romanzi impegnati o di nicchia... mi sono fatta prestare (badate bene: non l'ho comprato) "L'eleganza del riccio" di Muriel Barbery. Beh! Beh! Mica male la storia di una portinaia in un palazzo abitato dalla ricca borghesia parigina. Innanzitutto non è una lettura da ombrellone, con tutti quei termini mutuati dalla filosofia e tutti quei tentativi di dare un senso alla vita noiosa e senza slanci dei ricchi che abitano in 400 metri quadri, anzi, forse il tentativo di dare un senso alla vita tout court. Non mi sentirei di consigliarlo né alla casalinga di Voghera né a chi odia le dissimulazioni al contrario, cioè i tentativi di fingersi ignoranti e stupidi per non dover giustificare la propria diversità continuamente, in un mondo popolato per lo più di gente che non hai mai letto "Il Manifesto del Partito Comunista" di Marx ed Engels o "Anna Karenina" di Lev Tolstoj. Capirete bene che quando tutti fingono di essere di più di quello che sono, una concierge auto-didatta e una dodicenne super-intelligente che vivono in incognito sono delle figure rivoluzionarie. Peccato che entrambe non si nascondano per convinzione propria ma a causa di eventi esterni, un po' come i single che dichiarano di esserlo "per scelta" quando invece nessuno se li è presi. Peccato inoltre che la portinaia, che si dichiara superiore ai suoi datori di lavori a ogni piè sospinto, incappi anche lei in pregiudizi, facendo apparire tutti i ricchi viziati, con la puzza sotto il naso e inutili, al pari del suo grasso gatto perennemente afflosciato sul divano.
A parte questo il romanzo è piacevole. Forse un po' compiaciuto, come c'era da aspettarsi da una professoressa di filosofia, ma per niente banale. Mi tocca dargli 4 stelle.

giovedì 3 giugno 2010

Incomprensione

Ho fatto l’errore di leggere la prefazione di Oreste Del Buono all’opera di Andé Gide, premio Nobel nel 1947, prima di cominciare “La scuola delle mogli” nell’edizione Utet. Nella prefazione si pone l’accento sulla soffocante educazione cristiana ricevuta da Gide, rimasto orfano di padre a undici anni, da parte della pia madre e di un circolo di sante donne, che portò lo scrittore a fuggire in Africa e a intraprendere sia una carriera artistica polemica e trasgressiva sia un cammino sessuale ben lontano da scrupoli religiosi e morali. Si pone l’accento sulla modernità dell’autore, sui temi scomodi trattati nelle sue opere, sul suo impegno sociale e politico spesso fonte di attriti, sulla sua ambiguità letteraria e umana (rimaneva pur sempre imbevuto di puritanesimo, tanto da convincersi a prendere in sposa una cugina).
Mi aspettavo un romanzo coraggioso, dunque, e fuori dagli schemi. Gide era amico di Oscar Wilde, per intenderci. Invece mi sono ritrovata tra le mani un trattato sulle presunte virtù che una donna, attorno al 1929, dovrebbe possedere per essere una buona moglie: sottomissione, umiltà, spirito di sacrificio e, perché no, ignoranza. A parte il contenuto, che qualcuno potrebbe interpretare come una provocazione (con tanta fantasia), lo stile è pomposo, artefatto; il tono moralistico; le frasi stucchevoli. Provo a mettermi nei panni di un lettore dell’epoca e, a parte il tema dell’omosessualità femminile, trattato con le pinze, non vi trovo nulla di scandalosamente moderno. Se vogliamo fare un paragone, nel 1928 D. H. Lawrence scrisse “L’amante di Lady Chatterley” e non le paturnie di una moglie che va a morire al fronte perché non accetta di essersi disamorata del marito.
Ammetto, non ho capito nulla della grandezza di Gide. Forse dovrei insistere e leggermi qualcos’altro ma sentenze come “Secondo l’abate, l’importante non è tanto il dire quel che si pensa (ché spesso si pensa molto male) quanto quello che si dovrebbe pensare; giacché molto naturalmente e quasi senza volere, si finisce per pensare quello che si dice” mi terrorizzano.

mercoledì 26 maggio 2010

Cetaganda

L'ennesima puntata della saga del giovane Miles Vorgosikan, "Cetaganda" di Lois MacMaster Bujold, per metà fantascienza e per metà un giallo, si potrebbe anche leggere senza sapere niente delle precedenti avventure. Attenzione, però: potreste rimanerne affascinati e sentire il bisogno di cominciare dall'inizio. Non perché il protagonista sia un avventuriero arguto e coraggioso o perché le sue peripezie siano onorevoli tentativi di salvare l'universo da otto pianeti votati alla conquista ma perché Miles, con i suoi difetti fisici che lo fanno zoppicare e apparire goffo, con la sua curiosità che lo porta a cacciarsi nelle situazioni più diplomaticamente riprovevoli, con il suo sesto senso per l'intrigo che gli fa scorgere nel più noiso dei funerali di stato un pericoloso complotto genetico, ci fa morire dalle risate. Riesce a farsi ustionare da una proiezione olografica e - quasi - incenerire da un tappeto erboso a una mostra d'arte. Riesce a scendere in picchiata da un grattacielo dentro una specie di bolla di sapone e a finire tra le braccia delle più belle dame di Cetaganda senza beccarsi neanche un bacio ma meritandosi una medaglia al valore. Si tratta dell'unico protagonista della SF che diventa eroe ancora prima di essere un uomo. Riuscirà il nostro Miles a crescere e a meritarsi un'astronave tutta sua (senza rubarla)? ****

domenica 9 maggio 2010

Consigli di non-visione

Facendo zapping, mi sono imbattuta in DJTV proprio nel momento in cui iniziavano i "Consigli di non-lettura" che recitavano più o meno così: "Lasciate pure i libri sullo scaffale! Ve lo facciamo noi il riassunto dei libri e, anche se non si avrete letti, farete bella figura con gli amici!" Seguiva una storpiatura de Il signore degli anelli di Tolkien della lunghezza di cinquanta parole di cui almeno venti erano dedicate alla bruttezza di Gollum: "Ma quanto è brutto Gollum? Eh sì, è proprio brutto..." e via dicendo. Sono rimasta scandalizzata. Sono questi i consigli da dare ai teenager? E' questa la fine della lettura? E' questa la cultura che vogliamo trasmettere? Non sono tanto vecchia ma io in questa farsa non mi riconosco. Come mai l'onnipresente garante delle tele-comunicazioni non si è ancora accorto di questa grave istigazione alla stupidità? Non arrendiamoci e boicottiamo DJTV. In fondo, non serve ascoltare musica: basta che qualcuno ce ne faccia un riassunto.

mercoledì 5 maggio 2010

Ricette fanta-siose

Se siete in dieta, non leggete "Memorie di un cuoco d'astronave" di Massimo Mongai, romanzo di fanta-cucina grazie al quale l'autore ha vinto il premio Urania nel 1997. Delle serie: prendete la giuria per la gola. La trama è un pretesto per delineare le nuove frontiere dell'arte culinaria dopo la scoperta d'innumerevoli civiltà aliene con le quali l'uomo si troverà a convivere in una pacifica Agorà verso il 3500. Un cuoco umano, imbarcatosi su un'astronave per un viaggio di anni, si ritrova a dover imbandire 3 pasti al giorno per centinaia di croceristi di varie specie, schizzinosi e abituati a menù diversissimi, alcuni allergici a certi cibi (che per altri sono prelibatezze) o con tabù religiosi insuperabili. Il nostro eroe, dotato di sensibilità per gl'ingredienti e di fantasia per le tecniche di cottura fuori dal comune, non solo si rivela un perfetto capo-cuoco ma risolve alcune crisi inter-specie che avrebbero potuto portare a beghe diplomatiche o, addirittura, allo sterminio delle stesse. Il tutto farcito da una buona dose di sesso futuristico, di cui, naturalmente, non dirò una sola parola in koiné per non rovinare la sorpresa.
Il libro ha due difetti: la lettura risulta un po' frammentaria e alcuni ingredienti riportati nelle ricette non si trovano ancora sul mercato. Accidenti! ****

lunedì 19 aprile 2010

Trasgressione

La raccolta di poesie di Charles Bukowski "The last night of earth poems", tradotto liberamente in "Seduto sul bordo del letto mi finisco una birra nel buio", ha un'ambientazione domestica: il balcone di casa, il baretto dietro l'angolo, un cinema scadente, al massimo l'ippodromo, e dei temi intimi: ricordi di scuola, avventure con le donne, sbornie, scommesse e la morte che ci attende dietro l'angolo. Niente a che fare con la trasgressione di ampio respiro di Kerouac, che se ne andava avanti e indietro per l'America all'inseguimento di chissà quale verità cosmica, nella speranza di trovarla in bettole con musica dal vivo, nella droga, in donne facili e poi ammantando il tutto con un'aura filosofica. Bukowski aveva capito che si può fare gli alternativi anche nel proprio orticello, che la vera trasgressione non consiste nel tentare di carpire il significato del dolore o il volto di Dio ma nel bruciare le pagine della propria esistenza bevendosi una birra e godendosi il rogo attimo per attimo.

lunedì 12 aprile 2010

L'ultimo viaggio

Non avevo mai letto nessun romanzo israeliano e ho iniziato con "Il responsabile delle risorse umane" di Abraham B. Yehoshua, storia della morte accidentale, al mercato, di una dipendente di una grossa fabbrica alimentare, o meglio, di una ex-dipendente. La sua fine scatena una serie di piccoli drammi: quello del responsabile delle risorse umane, appunto, che non si ricorda assolutamente di averle fatto il colloquio di assunzione e non sa dire se fosse bella o meno; quella del capo del turno di notte che, essendosi invaghito di lei, per non cadere in tentazione l'ha "allontanata" ma senza farla licenziare; quella del proprietario, un vecchio malato che teme ripercussioni sull'immagine dell'azienda, dato che le versava ancora lo stipendio quando in realtà lei non era più in servizio.
L'idea di fondo è la seguente: anche le piccole colpe possono avere un potere terribile. E i sensi di colpa, aggiungo io, possono dare inizio a dei viaggi paradossali, al seguito di una bara, durante i quali l'ossessione per la morte che può sorprenderci in qualunque luogo e in qualuinque momento (ma soprattutto in terre martoriate dal terrorismo) diventa quasi necrofilia.
Le ripetizioni e il ritmo lento non sarebbero grandi difetti se il finale non riportasse all'inizio, inanellando la storia in una spirale d'insensatezza, come ammesso dallo stesso autore. Spesso si vive e si muore senza sapere il perché. La scena dell'auto-avvelenamento del protagonista, sebbene esilarante, non è sufficiente ad alleggerire una trama funerea. **

mercoledì 31 marzo 2010

I Preraffaeliti e l'incubo

Mi è capitato di visitare la mostra di Ravenna sui Preraffaeliti, un gruppo di pittori inglesi fondato nel 1848 con l'intento di superare le rigide regole classiche e tornare a ispirarsi alla natura, imitando il tratto degli artisti prima di Raffaello. Mi sarei aspettata numerosi quadri di Dante Gabriel Rossetti e, perché no, addirittura l'adorata Ophelia, dipinta da John Everett Millais costringendo la modella a immergersi in una vasca piena d'acqua (cosa per la quale la ragazza si ammalò gravemente e che, forse, la condusse alla prematura morte). Ci può essere qualcosa di più romantico? Non certo i paesaggi italiani di John Ruskin, piatto forte della mostra. Per trovare alcuni ritratti di donna caratterizzati da una folta capigliatura rossa, tipica dell'iconografia preraffaelita, ho dovuto attendere fin quasi la fine, e se non fosse stato per il "Dolce far niente" di William Holman Hunt o i due dipinti di Rossetti, uno raffigurante la moglie Elisabeth, morta suicida dopo aver partorito un figlio morto, e il secondo l'amante Fanny, che non si concedeva solo a lui, la mia visita sarebbe stata un completo insuccesso.
P.S. Il terzo quadro di Rossetti che avrebbe dovuto essere presente alla mostra, "La Ghirlandata" non c'era, o meglio, c'era sotto forma di riproduzione, in quanto la curatrice del museo che avrebbe dovuto prestarlo è deceduta improvvisamente.

sabato 20 marzo 2010

Troppo o niente

Parigi, seconda metà del diciottesimo secolo. Il protagonista de "Il Profumo" di Patrick Suskind è un orfano la cui bruttezza non è l'unica ragione per la quale non riesce a trovare un posto nella turbolenta società di quegli anni: egli è completamente inodore. Il suo corpo non suda e non rilascia effluvi quindi, per istinto, gli altri lo evitano. A seguito di un doloroso periodo d'isolamento auto-inflitto, egli riesce a comprendere l'origine della propria diversità ma, lungi dal voler diventare normale, dedicherà la propria vita alla perfezione, alla ricerca del Profumo Ideale.
Romanzo scritto in modo impeccabile, soprattutto nella parte onirica: per il protagonista i sogni non sono immagini bensì odori. L'ho letto alcuni anni fa, quando ancora non si pensava di utilizzarlo come soggetto di un film, rimanendone affascinata. E' vivido, crudo, indelebile come una "nota di fondo". Adatto a nasi che non temono le essenze estreme. *****
Parigi, oggi. La protagonista di "L'odore del mondo" di Radhika Jha è una diciottenne di origine indiana che vive in Kenia e che, a causa di disordini politici, rimane orfana di padre e viene "abbandonata" dalla madre presso degli zii nella capitale francese. L'incontro con la civiltà occidentale è traumatico e la spinge a lasciare la nuova famiglia per cercare se stessa. Tuttavia l'identità non la si trova facilmente, specie se ci si rifiuta di lavorare e si lascia scadere il permesso di soggiorno (per ben due volte). La vocazione non la si scova buttandosi tra le braccia di uomini sposati o di commercianti senza scrupoli. La bellezza fisica non è un passe-partout e quell'odore insopportabile, di marcio, di morte, che ci afferra quando abbiamo paura di non farcela da sole, con le nostre uniche forze, non è una scusa sufficiente per isolarci dal mondo e abbandonarci all'auto-commiserazione.
La scrittura è fluida ma il tema non è originale, soprattutto se ci si è imbattuti prima in Suskind. **

lunedì 8 marzo 2010

Corrida

La municipalità di Barcellona sta discutendo un disegno di legge sull'abolizione della corrida in Catalogna nonostante l'opposizione di Madrid. Oltre a motivi economici - il turista vi assiste al massimo una volta nella vita più per curiosità che per il piacere di osservare la lenta agonia di un toro di 470 chili almeno - ci sono ragioni sentimentali. La corrida è la Spagna, se non altro uno dei suoi componenti principali. Persino io, contraria all'uccisione rituale di animali (se dite là che la corrida è uno sport vi ammazzano), non ho resistito e ho visitato, in bassa stagione, la "plaza de toros" di Siviglia con annesso museo. In fondo mangio carne. Il dottor Veronesi direbbe che non c'è nessuna differenza tra l'allevare un vitello a furia di ormoni e macellarlo entro l'anno o farne crescere un altro per quattro anni e poi terminare la sua esistenza durante una gloriosa lidia.
Però il trattato di Hemingway sulla corrida non sono riuscita a leggerlo fino in fondo. Troppe ripetizioni. In "Morte nel pomeriggio", l'autore tenta di spiegare le ragioni secolari della corrida a una vecchina che, evidentemente, era sorda come una campana...
Inoltre non capirò mai come sia permesso ai dei bambini di dieci, dodici anni seguire le orme dei padri in quelle che sono delle vere e proprie corride in piccolo (becerradas) durante le quali i matadores in erba rimangono feriti anche in modo grave. L'ultimo episodio è recente. Sarebbe il caso di eliminare queste prima di ragionare su tutto il resto.

martedì 2 marzo 2010

Arthur Phillips, questo sconosciuto

Sebbene non scriva storie impegnate, ma nemmeno trame poliziesche o massoniche di sicuro impatto commerciale, Phillips ha uno stile molto fluido e piacevole. E' apprezzabile il fatto che, dopo il successo strepitoso de L'archeologo, pubblicato in America nel 2004 e tradotto in 40 lingue, l'autore non si sia "incancrenito" (e chi leggerà il suddetto romanzo capirà il perché del verbo) sullo stesso genere.
1) L'archeologo: vita di un giovane inglese, egittologo dilettante, che riesce a convincere il futuro suocero a farsi finanziare una spedizione proprio mentre la stella del professor Carter, dopo un decennio d'infruttuose buche nel deserto, sembra in declino. La storia, scritta in prima persona, è divertente, soprattutto per chi ama l'arte antica, chi sa quanto sia difficile ottenere un finanziamento per la ricerca, chi desideri combinare qualcosa d'importante nella vita anche a costo di minare la propria salute. E' uno dei rari libri che mi piacerebbe rileggere. *****
2) Angelica: storia di una madre vittoriana troppo apprensiva che, di fronte alla minaccia del marito di allontanare l'unica amatissima figlia di soli quattro anni per iniziare la sua educazione scolastica, dà in escandescenze e comincia a vedere spiriti maligni che infestano la casa e attentano all'innocenza della figlioletta. La narrazione si svolge secondo quattro punti di vista ed è molto curata ma forse la trama è, tutto sommato, esile. Il romanzo è più adatto a un pubblico femminile rispetto al precedente. ****
I due lavori sono accomunati dai tentativi dei protagonisti di far combaciare la deludente realtà con le loro illusioni, tentativi che gli altri personaggi considerano folli in quanto vanno contro le leggi che regolano la società. Così sorge una domanda: sono pazzi perché non vedono il mondo alla stessa maniera degli altri o il mondo, contrastando tanto crudelmente la loro felicità, li rende pazzi?
Forse un giorno l'autore, invece che limitarsi a instillare dubbi, arriverà a dare la risposta, entrando nell'Olimpo degli scrittori da ricordare.

giovedì 25 febbraio 2010

Citazionismo

Per San Valentino 2010 è stato pubblicato un libercolo con tante figure colorate e le frasi d'amore più belle (titolo della raccolta, appunto, "Amore") dei romanzi di Coelho. E con questa fanno quattro: vedi le precedenti "Il manuale del guerriero della luce", "Sono come il fiume che scorre" e "Sfide-Agenda 2007". Non sta esagerando? Credevo che per avere delle raccolte di aforismi intestate a proprio nome bisognasse almeno almeno essere morti...

giovedì 18 febbraio 2010

Fantascienza allo zafferano

Un'altra parodia, questa volta della società italiana e dei suoi mali: la sete di potere, la corruzione, l'abusivismo edilizio, la precarietà lavorativa, la stupidità di certi programmi televisivi.
"Ascensore per l'ignoto" di S. Carducci e A. Fambrini, finalista al premio Urania 2007, ipotizza una realtà nella quale l'abbruttimento, l'appiattimento, lo "stallo cosmico" per dirla con gli autori, tenta di prendere il sopravvento sul libero arbitrio, nella quale l'Informe cerca di scalzare la Causa e l'Effetto. La battaglia tra queste due avverse forze avviene a Milano, in prossimità e dentro al Duomo, in un groviglio di nebbie mefitiche e candele tremolanti, caviglie rotte e cuori spezzati, cavalli telepatici e sacrifici inutili e, last but not least, mostri che rimpiccioliscono. Gli unici a sopravvivere sono il Presentatore televisivo e la Valletta ammiccante.
Le intenzioni degli autori sono lodevoli ma futili: basta sintonizzarsi su un qualsiasi telegiornale per rendersi conto di come è ridotta l'Italia.
L'ascensore del titolo va in un'unica direzione: in basso. **

lunedì 15 febbraio 2010

Sono pazzi questi finnici

Il dio del tuono, Ukko, a capo del Parnaso finlandese, constatando la quasi totale disaffezione degli umani nei riguardi del vecchio culto, decide di mandare suo figlio sulla terra per fare proselitismo. Ma il giovane dio, Rutja, è capace soltanto di lanciare dardi fiammeggianti dagli occhi, far svolazzare braciole di maiale e sedurre ispettrici del fisco. Per compiere prodigi, ad esempio fulminare qualcuno, ha bisogno di invocare il padre tramite frasi rituali, e quando apre una clinica privata per guarire pazzi e isterici grazie alla folgoroterapia, è Ukko a fare il lavoro sporco. Poiché la Finlandia è terra di pazzi dalle tendenze suicide e di madri nubili inacidite, la clinica ha uno strepitoso successo e il numero dei pazzi guariti è direttamente proporzionale a quello dei nuovi adepti al culto neoancestrale. Ma cosa succede quando gli alienati da curare finiscono? (!)
"Il figlio del dio del tuono" di Arto Paasilinna è una parodia mal riuscita della religione cristiana, con personaggi stereotipati e scrittura priva della poeticità bucolica che caratterizza "L'anno della lepre", sempre dello stesso autore.
Dopo alcuni libri di successo, Paasilinna si accontenta di usare la carbonella invece di ceppi di pino. **

sabato 13 febbraio 2010

Dove sono tutti quanti?

La domanda di Enrico Fermi potrebbe avere la seguente risposta.
"Le civiltà intelligenti potrebbero semplicemente invecchiare, stancarsi e crollare in uno stato di sonnambulismo. Dove sono? Dappertutto, ma ancora non li abbiamo sentiti russare". Alan Boss, L'universo affollato.

domenica 7 febbraio 2010

Posso farvi una domanda?

Avete dei pregiudizi nei confronti dei topi?
Scommetto che la vostra risposta è sì. E fate bene. I ratti sono tozzi, pelosi, senza mento, con gli occhi sporgenti e i denti gialli, e hanno un muso sfuggente, disonesto, inaffidabile, meschino. Si nutrono d'immondizia, razzolano nelle fogne, si arrampicano sulle grondaie e si appiattiscono fin quasi passare sotto le porte. Sono una minaccia. Se desiderate conoscere meglio il nemico, per prendere le adeguate contromisure, dovreste leggere "Firmino" di Sam Savage. Il protagonista, un topo ovviamente, riunisce in sè le suddette caratteristiche e ne colleziona numerose altre: sa leggere, anzi, ha letto quintali di classici che voi non vi sognate nemmeno (avete per caso letto "Finnegans Wake" di Joyce? no, eh?), sa suonare il piano, tenta di comporre un'Ode alla Notte (persino la sua traduzione francese Ode à la Nuit) ed entra al cinema gratis che, di questi tempi, con i costi del 3D, non è trascurabile. Se siete stanchi dei soliti topi di campagna e di quelli serviti su un piatto d'argento dei cartoni animati, questo romanzo fa per voi. Finalmente scoprirete da dove nasce l'espressione "topo da biblioteca" e vi renderete conto che, per quanto piccoli e insignificanti possiate essere, nulla vieta che la vostra follia sia tra le più grandi.
Rosicchiabile. ****

lunedì 1 febbraio 2010

Peste ti colga

Ho cominciato da poco a leggere fantascienza e, premettendo che non sono un'esperta, mi sono appassionata alla SF "umanistica" della saga adolescenziale di Miles Vorgosigan (McMaster); mi è piaciuto il sottofondo antropologico di un paio di opere della Le Guin; ho digerito i tempi prolissi della millenaria esistenza dei robot di Simark, le paludose lotte per la soppravvivenza di Ballard e i ghirigori linguistici frutto d'intelligenze aliene di Delany. Ho capito persino il complicatissimo mondo cyber-punk di Simmons dove i pellegrini, per quanto armati e motivati, alla fine soccombono a maree del tempo iper-tecnologiche e guerresche. Non come i personaggi di Reynolds, che vivono in eterno nonostante accecamenti, tempeste di sabbia, ibernazioni sbagliate, rapimenti, tute spaziali impazzite, armi anti-materia, topi famelici, follia indotta da alieni, pianeti di raccolta dati per lo sterminio intergalattico di tutte le forme di vita intelligenti e... peste. Futuro e passato si mescolano in una space-opera dai contorni "nebulosi".

giovedì 28 gennaio 2010

Fantascienza ecologica

Chi vede Avatar in 3D atterra sulla luna Pandora, un mondo dall'atmosfera irrespirabile, pieno di piante esotiche, animali selvaggi, il più delle volte letali, e nativi umanoidi diffidenti il cui corpo, bellissimo, è in grado di compiere spericolate acrobazie. I primi cinque minuti servono per acclimatarsi con il 3D, le restanti due ore e mezza per godersi lo spettacolo. Chi l'ha detto che la trama è troppo semplice? E' realistica: l'Uomo trova sempre banalissime scuse per distruggere i suoi simili, figuriamoci una cultura aliena a cui basta una ciocca di capelli per entrare in sintonia con gli animali e l'anima della foresta!
Ecologico. ****

domenica 24 gennaio 2010

Istigazione

Un noto brand internazionale di abbigliamento appende i seguenti cartelloni: Smart criticize, stupid create. Be stupid. (Traduzione: gli intelligenti criticano, gli stupidi creano. Sii stupido). Touché. E' vero, quando vedo un'ingiustizia non ce la faccio a stare zitta... ma se perdessi meno tempo a criticare, probabilmente riuscirei a creare qualcosa di buono su questa terra, magari riuscirei anche a riempire il cassonetto dello sfalcio con la plastica e quello della carta con il metallo, anzi no, non farei proprio la raccolta differenziata. A che serve? Adesso che ci sono i saldi mi comprerei una bella pelliccia di visone oppure andrei in crociera nei Caraibi e mi farei sbarcare in una spiaggia di Haiti a soli 30 Km da Port-au-Prince... Ci sono così tante idee creative da realizzare! Chissà se il buon Gramellini ha il tempo di stilarmi una classifica e mi darmi qualche saggio consiglio.

lunedì 18 gennaio 2010

Legalità

Metti che voglia contattare le forze dell'ordine di A. per una piccola segnalazione... vado sul sito del comune e scopro che la polizia ha un indirizzo mail mentre i carabinieri no. Scrivo ai primi. La mail torna indietro. Li chiamo. Il numero è inesistente. Ok, la polizia ad A. non c'è più. Mi rivolgo alla caserma dei carabinieri di L. che, secondo un altro sito del comune, dovrebbe essere responsabile anche di A., e invece no. Avrei dovuto chiamare B. Cerco il numero, lo compongo, due volte in mattinata e due nel pomeriggio: è sempre occupato. Per forza! Dovranno rispondere a un sacco di c.

domenica 17 gennaio 2010

Il fiore più bello

Charlie è un ragazzo con un quoziente d'intelligenza di settanta che è stato abbandonato dalla famiglia. Campa grazie alla generosità di un fornaio che aiuta pulendo il negozio e facendo alcune commissioni e, nonostante gli scherzi crudeli degli altri garzoni, si sente utile ed è felice. Un giorno, alla scuola per ragazzi ritardati dove cerca d'imparare a leggere, gli viene proposto di sottoporsi a un'operazione per diventare intelligente, procedura sperimentale che fino ad allora era stata riservata alle cavie. Con il topo Algernon aveva avuto pieno successo. Charlie accetta e, dopo la riuscita dell'operazione, impara gradualmente a leggere e a scrivere. Il suo diario costituisce la cronaca dei suoi progressi ma, mentre la sua intelligenza decolla fino a superare persino quella dei luminari che l'hanno curato, la sua crescita emotiva non è altrettanto celere e gli provoca cocenti delusioni. Spaventa gli amici della panetteria e li perde, solo Algernon gli resta. Ma per quanto? Cos'è che rende veramente felice un uomo? In "Fiori per Algernon" di Daniel Keyes troverete la commuovente risposta.
Da leggere assolutamente. *****